Paolo Pillitteri racconta la Milano da bere, i segreti e i misteri

Carlomagno

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Bettino Craxi con Paolo Pillitteri
Bettino Craxi con Paolo Pillitteri (foto Dino Fracchia)

Emiliano Fiuzzi per il Fatto Quotidiano, (8 settembre 2014)

Nella Milano che si scolarono lui era Pilli. Nel resto d’Italia il sindaco cognato. Uno degli ultimi craxiani dichiarati, Paolo Pillitteri, tré operazioni a cuore aperto, una decina di stent, cinque by pass. Ci tiene a precisare che lui da Milano non è mai andato via: «Sono generosi i milanesi, mi vogliono ancora bene, mi chiamano per strada. Stamani ero al mercato a comprare l’uva. Ti ricordi?, mi dicono.

Eh, hai voglia. Ma non mi ricordo nulla. Anche perché eravamo i socialisti, noi non avevamo nemici in quel decennio che va dagli Ottanta ai Novanta. Erano tutti amici nostri. In pochi stavano dall’altra parte e se potevamo politicamente li facevamo fuori, perché era la squadra che contava. Ne bastava uno e ti avrebbe sfasciato il partito».

Scusi Pillitteri, non vorrà venirci a raccontare la storia di Craxi grande statista?
«Lo è stato. Intanto governava col 14%. E metteva d’accordo tutti. Poi il Paese si muoveva. Il debito pubblico era di 400 miliardi, non di duemila come oggi. Diventò presidente del consiglio e l’inflazione era al 17%, la portò al 3. Basta leggere i dati che ogni tanto pubblica il Wall Street Journal».

Paolo Pillitteri
Paolo Pillitteri

L’estate che le ha cambiato l’esistenza?
«In quella Milano lì era sempre estate. Sicuramente a fine agosto del 1986 capii che presto sarei diventato il sindaco. Era già scritto che il mio predecessore, Carlo Tognoli, non riuscisse ad andare avanti. Da assessore diventai sindaco, il sindaco della mia città, della mia Milano».

Craxi è l’uomo della sua vita: le ha dato la sorella che lei si sposò e poi la poltrona di sindaco.
«Sicuramente. Io quando ci conoscemmo gli parlavo di cinema. Ascoltava, ma non gli piaceva. E disse: “II cinema non conta un cazzo, conta solo la politica”. Così diventammo amici. Lui era già Benedetto prima di diventare Bettino».

In che senso?
«Nel senso che era autoritario. Non autorevole. Autoritario, spiccio nei modi. E nelle parole. Provincialissimo: sempre il solito ristorante, sempre il solito cibo. La sera andavamo al Derby, cabaret in viale Monte Rosa, il lunedì da Matavei, storico ristorante. La squadra, quella era la sua fissazione».

Un po’ come Renzi?
«Esatto. Ma io lo ripeto a tutti: guardate che l’erede politico di Craxi è Renzi. Berlusconi, del quale sono amico, non c’entra niente con Craxi».

Amico di ferro: si fece sposare da lei con Veronica Lario.
«Ma lei è giovane cosa ne sa degli anni Ottanta? Giocava a soldatini…».

Ho letto molto, però.
«Sì, Berlusconi era amico mio, amico di Bettino. Ma è un’altra storia politica e, rispetto a quella socialista, si è mangiato il grande consenso che aveva. Lo ha sprecato».

Colpa delle donne, dicono. Anche lei e Craxi avevate un debole per le donne.
«Sì, ma io non me le portavo in giunta e lui non se le portava in parlamento. Berlusconi sì. Ma quel capitolo, e forse anche Forza Italia, si è chiuso».

Non mi dica che vota anche lei Renzi?
«Renzi è un genio. È riuscito dove neanche io. Le racconto una storia».

Mi dica.
«Era la Milano da bere, come la chiama lei. Io la intendo come la Milano che cresceva. Un giornale, Capital, mi chiede di posare in copertina con Armani e io lo faccio. Venne giù il mondo, il sindaco con uno che fa i vestiti. E giù quelle cose che ti spaccavano le gambe».

E che c’entra con Renzi?
«Che lui oggi indossa il giubbottino come Fonzie, va dalla De Filippi e convince tutti che dopo di lui nessuno. È la sua grande forza: far credere che oltre non ci sia assolutamente niente. Invece c’è sempre un dopo. Ma questo gioco lo usavamo anche noi. E poi Renzi ha un grande vantaggio».

Quale?
«L’anagrafe. È la più grande espressione di democrazia, ci pone tutti allo stesso livello. Quello non ha neanche 40 anni».

Voi non eravate per tutti allo stesso livello, a dire la verità. C’eravate voi, poi i cortigiani e i pagatori di tangenti.
«Allora per fare politica servivano quattrini. Oggi è il contrario, si arricchiscono con la politica».

Bettino Craxi la moglie. Dietro Berlusconi
Bettino Craxi la moglie. Dietro Berlusconi

Lei nella Milano da bere, che poi era uno spot dell’amaro Ramazzotti, ci sguazzava. Occhi azzurri, potente, vicino al boss. Amico degli stilisti.
«Gli stilisti erano una parte buona di quella Milano. un giorno passo davanti al negozio di Armani. E lo vedo che traffica con un manichino. Mi riconosce e mi chiama dentro. Mi dice che lui vuole precisione, non serve altro per il made m Italy».

Non solo Armani: erano socialisti i Versace, Nicola Trussardi, Krizia. Difatti amici suoi, giusto?
«Sì. Le ripeto un concetto, noi non avevamo nemici, a parole erano tutti socialisti e craxiani».

De Gregori ha scritto in una canzone di Craxi: è solo il capo banda, ma sembra un faraone. Si atteggia a Mitterand, ma è peggio di Nerone.
«Sciocchezze. Poi proprio dai cantanti? Erano tutti socialisti anche loro. A partire dal povero Dalla a Ron. Forse era dei nostri anche De Gregori stesso».

La sera il clan Craxi amava cantare. Anche lui come Berlusconi un fan degli chansonnier francesi?
«No, Bettino cantanti milanesi. Ma mi, era la canzone che adorava. Adorava tutto Jannacci».

Frequentavate anche il Derby?
«Come no. C’erano Jannacci, appunto, Cochi e Renato, Abatantuono, Boldi».

Vi sedevate vicini a Francis Turatello, prima che lo arrestassero, e sventrassero, nel carcere di Nuoro.
«Al Derby Turatello non me lo ricordo. Lo incrociavo un locale in zona Brera».

E gli imprenditori, moda a parte? Chi erano i suoi amici? Rizzoli lo sappiamo. Falk? Moratti?
«Sicuramente i Moratti, io ero amico del vecchio Moratti. Una grande famiglia. Non è un caso che io sia anche interista. Conosco Marco, Massimo, tutti in gamba».

Altri?
«Ho apprezzato molto Ernesto Pellegrini, quello che si comprò l’Inter. Ci conoscevamo da bambini, fece i soldi».

Vabbè, anche lei e Craxi faceste soldi, no?
«Noi arricchivamo la politica, non noi. Io faccio la stessa vita. Vado al mercato per risparmiare, non sono ricco».

Silvio Berlusconi con Veronica Lario
Silvio Berlusconi con Veronica Lario

Raoul Gardini non vi amava molto, giusto?
«Non creda. Non apprezzava Craxi, ma a me era molto legato. Un giorno eravamo a pranzo, accanto alla Scala. Lui a un certo punto mi gela: “Ma cos’è che vuole da me?”. E io: lo vede quello, è palazzo Marino. Guardi in quali condizioni è. Il giorno dopo Gardini mi mandò gli operai per rifare la facciata».

Non le chiese niente in cambio?
«Sì, voleva le scritte luminose del Messaggero, si ricorda che comprò il giornale? Figuriamoci, mi avrebbero fatto la pelle. A Milano, su palazzo Marino, la pubblicità del Messaggero. A Milano c’era solo il Corriere. E allora dettava legge».

Era amico anche dei direttori e dei giornalisti?
«Sì, venivano a chiedermi piccoli favori. Una volta una giornalista importante, mi faccia fare il signore, lo sanno tutti chi è. Era una firma di Repubblica, lavorava a Milano e oggi è più influente di allora. Mi chiese la casa. Il giorno dopo le feci avere la casa grande come la voleva lei. Funzionava cosi».

Non era un bel funzionare. Ma non vi siete mai resi conto che stavate esagerando nell’illegalità e nella disinvoltura?
«Abbiamo esagerato. È vero. Ma ci sentivamo intoccabili».

Quando capi che il vento cambiava?
«Nel 1990, quando arrivò la Lega. E con i referen dum di Mario Segni. Cresceva l’antipolica. Io amo la bicicletta, il sabato prima del referendum, sono al parco. Mi chiamano un gruppo di persone e mi dicono, allora domani tutti a votare. A quel punto chiamo Bettino e gli dico: ma non è che la stiamo sottovalutando questa cosa dei referendum. Lui si mette a ridere: ma cosa dici? Non ti preoccupare. Era iniziata la fine».

Lei non partecipò ai funerali di Craxi?
«Non me lo permisero i magistrati».

Dicono che la bara la spedì Ligresti, altro vostro grande amico. Era più piccola, per risparmiare. Dovettero piegargli le gambe per farcelo stare.
«Non saprei. So bene che prima di scappare aveva 30 avvisi di garanzia e 20 richieste di autorizzazione a procedere. Morì Balsamo e finì tutto sulle sue spalle».

Un motivo ci sarà?

«La politica funzionava così, era un do ut des».

Era anche l’abuso del potere che facevate?
«Il sistema funzionava così, non c’erano verginelli in giro».

Abbiamo capito come la pensa. Poi è stato male?
«Problemi al cuore. Una cosa dalla quale psicologicamente non si esce».

E infatti arrivò la depressione e un tentativo di suicidio.
«Non mi faccia parlare di queste cose. Mi viene ancora la pelle d’oca. Vorrei scrivere un libro, ma non lo so fare. Io ero nato per fare cinema».

Era nato per fare cinema, finì con le tangenti.
«Mi trovai per caso nella politica. Pensi che io nemmeno ero del Psi, votavo Psdi. Poi ci fu l’amicizia e la parentela con Craxi. Ma ci finii per un puro caso».

Paolo Pillitteri mentre parlaTornasse indietro?
«Non lo so, sono pragmatico. Indietro non si torna».

Un’ultima cosa.
«Basta mi avete fatto parlare anche troppo. Cosa volete che vi dica. Che gli anni Ottanta erano diventati un musical, scritto da me. Ma ci volevano troppi soldi, non sono riuscito a farlo».

Se la vostra ascesa e caduta fosse un film da dove inizierebbe?
«Dalla fine, non ci sono dubbi. Dal 1990».

Pilli era nato per fare il cognato o il sindaco?
«Era nato per fare il cineasta. Ma non ci sono riuscito. Una promessa: la prima volta che viene a Milano ci troviamo in galleria. Solo da lì sotto si può capire cos’è questa città. Roma è tutta un’altra storia. Appuntamento in galleria, come cantava Memo Remigi».

Socialista anche lui?
«Tutti qui erano socialisti. Come oggi sono tutti renziani. È l’Italia. Lo dicevo che lei è giovane».