Marlane. Calabria, Campania, Veneto: il "filo di lana" che lega gli operai malati a Marzotto

Carlomagno

Ai Lettori

Secondo Piano News non riceve finanziamenti pubblici come i grandi e piccoli media mainstream sovvenzionati a pioggia dallo Stato. Pertanto chiediamo ai nostri lettori un contributo libero che può permetterci di continuare a offrire una informazione vera, libera e corretta.

SOSTIENI L'INFORMAZIONE INDIPENDENTE
 
SEGUICI SUI SOCIAL
Per ricevere gli aggiornamenti lascia un like sulla nuova pagina Fb. Iscriviti anche al Gruppo "Un Unico Copione Un'Unica Regia". Seguici pure su TELEGRAM 1 (La Verità Rende Liberi); e TELEGRAM 2  (Dino Granata), come su Twitter "X" SPN nonché su X (Dino Granata)
Marlane Marzotto
Lo stabilimento Marlane – Marzotto di Praia a Mare (Cs)

Giulia Zanfino e Emilio Grimaldi per Repubblica

C’è un filo di lana che lega tutta l’Italia, da Nord a Sud. È di marca. Si chiama Marzotto. Dal Veneto alla Campania. Dalla Campania alla Calabria. Un esercito di migliaia di operai che ha lavorato per il gruppo tessile. Più di cento i morti e gli ammalati di tumore.

Tante storie di dolore che sono al centro del processo di Paola conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. Nell’introdurre la requisitoria, il 20 settembre scorso, il pubblico ministero Gambassi ha provato a tracciare un paradigma della vicenda giudiziaria: “Racchiude una sintesi della vita di molte persone, di uomini e donne che hanno prestato la loro opera di lavoro nella fabbrica tessile Marlane di Praia a Mare”.

Un corteo di testimonianze di quella “non rara coesistenza tra il bene ed il male, tra, nello specifico, un’occupazione che dà e ha dato sostegno a quelle famiglie, ma che allo stesso tempo ha nascosto rischi e ha generato anche dolore”. Emblematica, per il pm, è la storia di Giuseppe Console: ha lavorato in quella fabbrica dal ’69 al 20 ottobre 1992, giorno della sua morte, raccontata dalla moglie: “La mia fabbrica” diceva, la stessa fabbrica che l’ha ucciso”.

Lo stabilimento secondo le accuse avrebbe compromesso anche l’ambiente circostante, non solo la salute dei suoi dipendenti. Secondo il pm Maria Camodeca, il disastro “deve essere considerato ancora in corso di consumazione, in quanto la contaminazione dei siti industriali e zone ad esso limitrofe ha assunto caratteristiche di potenza espansiva del danno e di attitudine a mettere in pericolo l’ambiente, tale da poter essere ipotizzata come disastro tuttora in corso per la permanenza sul suolo delle sostanze pericolose riversate in modo massiccio.” Nello stesso recinto antistante lo stabilimento. Sulla spiaggia, nel mare cristallino dell’isola di Dino.

Nel corso del processo il Gruppo Marzotto ha proposto una transazione economica ai familiari delle vittime della fabbrica di Praia a Mare. Dai 20 ai 30 mila euro. Le parti civili, sfibrate da vent’anni di attesa e spaventate dal rischio prescrizione, hanno accettato. Tutti, salvo la figlia di un ex dipendente, Angelo La Neve, deceduto nel 2004. Per lei, Teresa, si è trattato di una “beffa”. “Il danno di aver perso papà e la beffa di un compenso dato solo per mettere a tacere le persone che potevano dire ciò che non volevano venisse detto.”

Spostiamoci più a Nord. A Salerno. Qui sono 1.200 gli operai che sarebbero stati esposti all’amianto nello stabilimento Marzotto Sud. Lo accerta una perizia del Tribunale. Ed è un batti e ribatti di ricorsi, in totale mille, contro l’Inps e l’Inail per il riconoscimento dei dovuti aumenti pensionistici. Per circa un centinaio di casi l’Istituto previdenziale ha sollevato dubbi procedurali e ha spedito l’incartamento in Cassazione.

Ma la vera patria di Marzotto è in Veneto. Nel triangolo vicentino e “marzottino”. A Valdagno, a Schio e a Piovene Rocchette. A Valdagno la statua in memoria del Conte Gaetano Marzotto, fondatore dell’impero, negli anni delle lotte per i diritti dei lavoratori, nel 1968, venne buttata giù dagli stessi operai perché sottoposti a ritmi di lavoro massacranti e poco retribuiti.

Oggi è diverso. Oggi è la salute il diritto da salvaguardare. Almeno venti le persone che sarebbero state colpite dall’amianto. Secondo l’esposto presentato da Medicina Democratica, gli operai non sarebbero stati forniti di sistemi di protezione.

Il campanello d’allarme nella comunità scatta nel 2009. Quando il partito dei Comunisti italiani e l’Unione sindacale di base leggono un trafiletto di giornale sul caso Marlane in Calabria. Indagano. E scoprono che si tratta della stessa fabbrica tessile di Marzotto. Nel febbraio 2012 promuovono un appello per la Calabria: “Verità e Giustizia per i morti della Marlane”. La prima firmataria è Margherita Hack. Poi a seguire Franca Rame ed Ascanio Celestini.

“Certe volte mi faccio schifo da sola. L’altro giorno stavamo pranzando a casa e dal naso è iniziato a colare sangue.” Inizia così l’emorragia. Sono le dichiarazioni shock rese in anonimato da un’ex operaia dello stabilimento Marzotto di Piovene Rocchette.

Ha una perforazione al naso. Una patologia che ha contratto, secondo i medici che l’hanno visitata dopo che fu licenziata, nel reparto di stracannatura, cioè dove “arrivavano le rocche (gomitoli di lana) colorate ancora fumanti dalla tintoria.” Ed è qui che “ho respirato paraffina a tutta carica”.

La sua testimonianza non c’è nel fascicolo aperto dalla Procura di Vicenza. Non fa parte dei 21 casi che si trovano sulla scrivania del pubblico ministero, Gianni Pipeschi. Ha paura di denunciare. “Lo faccio per i miei figli. Per le conseguenze che potrebbero pagare,” dice.