“Dopo Capaci mio padre aveva fretta di essere sentito dai colleghi di Caltanissetta che indagavano sull’eccidio e non si spiegava perché non lo convocassero. Tanto che in un’occasione pubblica fece un intervento con cui tentò, secondo me, di sollecitare una convocazione”.
Lo ha detto Manfredi Borsellino, figlio del giudice Paolo ucciso nel 1992, deponendo a Caltanissetta, nel quarto processo sulla strage di via D’Amelio avvenuto a Palermo. Sul banco degli imputati boss e falsi pentiti per l’eccidio che segui la strage di Capaci in cui morirono, mesi prima, il suo collega Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta.
“Dopo la strage di Capaci – ha sottolineato Manfredi Borsellino – mio padre usava l’agenda rossa in modo compulsivo. Scriveva costantemente. E si trattava sicuramente di appunti di lavoro e dell’attività frenetica di quei giorni”. Il figlio del giudice si è detto certo che nell’agenda, scomparsa dopo la strage dalla borsa in cui il magistrato la custodiva, ci fossero cose importanti.
“Mio padre – ha spiegato – dopo la morte di Falcone era consapevole che sarebbe toccato a lui e di essere costantemente in pericolo. Aveva l’esigenza di lasciare tracce scritte. Non poteva metterci in pericolo rivelandoci delle cose”. Il figlio del magistrato si è detto convinto che se l’agenda rossa fosse stata trovata le indagini sulla morte del padre avrebbero avuto una piega diversa.
“Nessuno – ha aggiunto – ci chiese perché attribuivamo tanta importanza all’agenda rossa. E invece credo che investigativamente fosse importante fare accertamenti. Quando l’allora capo della Mobile, Arnaldo La Barbera ci ridiede la borsa – ha ricordato Manfredi Borsellino – e vedemmo che l’agenda non c’era e chiedemmo conto della cosa, si irritò molto.
Sembrava che gli interessasse solo sbrigarsi e che gli stessimo facendo perdere tempo. Praticamente disse a mia sorella Lucia che l’agenda non era mai esistita e che farneticava. Usò dei modi a dir poco discutibili”, ha detto ancora nella sua deposizione il figlio di Borsellino.
Deposizione anche per la figlia del giudice, Lucia Borsellino: “Il 19 luglio del 1992, – spiega – il giorno della sua morte, vidi mio padre mettere nella borsa, tra le altre cose, un’agenda rossa da cui non si separava mai”, ha detto Lucia Borsellino. “Non so perchè la usasse – ha spiegato – o cosa ci fosse scritto perché non ero solita chiedergli del suo lavoro”.
Lucia Borsellino, ribadisce poi le frasi riferite ai magistrati di Caltanissetta dal fratello Manfredi: “Qualche mese dopo la strage, l’ex questore Arnaldo La Barbera ci restituì la borsa di mio padre. L’agenda rossa non c’era più. Io mi lamentai della scomparsa e chiesi che fine avesse fatto. La Barbera escluse che ci fosse stata e mi disse che deliravo”, ha detto la Borsellino. La teste ha ricordato il teso scambio di battute con La Barbera, che coordinò il pool che indagò sulle stragi Falcone e Borsellino.
“Quando gli manifestai il mio fastidio – ha aggiunto Lucia Borsellino – mi disse che avevo bisogno di aiuto psicologico”. La figlia del magistrato ha raccontato di avere successivamente trovato a casa del padre un’altra agenda, di colore grigio, che consegnò all’allora pm di Caltanissetta Anna Palma. “Visto quanto accaduto nella storia di questo paese – ha aggiunto – chiesi che ne facessero delle fotocopie e che acquisissero quelle, ma che l’originale ci fosse restituito”.
“Mia madre è stata lucida fino alla fine”, ha spiegato inoltre la figlia del magistrato ricordando che l’ex capo del Ros, Antonio Subranni, dopo aver appreso delle dichiarazioni accusatorie fatte contro di lui dalla vedova Borsellino, aveva messo in dubbio le capacità mentali della donna da anni malata di leucemia. Disse che aveva l’alzheimer – ha proseguito – ma non era vero”.
Agnese Borsellino, a distanza di 15 anni dall’assassinio del marito, raccontò ai pm di Caltanissetta che il marito le aveva confidato di presunti rapporti tra Subranni e la mafia. “Credo – ha detto la testimone in qualche modo spiegando il perché della tardività delle dichiarazioni della madre – avesse paura di essere lasciata sola dalle istituzioni e che noi potessimo rimanere isolati. Ma col tempo si è sentita più libera e la sua sete di giustizia si è andata affermando sempre di più, anche perchè le preoccupazioni nei nostri confronti si andavano attenuando”.
“Una volta un mio ex fidanzato chiese a mio padre cosa pensasse di Bruno Contrada e lui si turbò molto. Ci fece capire che era una persona di cui non si doveva parlare”, ha poi concluso Lucia Borsellino.