Il Petrolio dell’Eni contaminò vasta area in Val d’Agri, un arresto e 13 indagati

Inchiesta della procura di Potenza che ipotizza i reati di disastro ambientale, abuso d'ufficio, falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale ed altro.

Carlomagno

Ai Lettori

Secondo Piano News non riceve finanziamenti pubblici come i grandi e piccoli media mainstream sovvenzionati a pioggia dallo Stato. Pertanto chiediamo ai nostri lettori un contributo libero che può permetterci di continuare a offrire una informazione vera, libera e corretta.

SOSTIENI L'INFORMAZIONE INDIPENDENTE
 
SEGUICI SUI SOCIAL
Per ricevere gli aggiornamenti lascia un like sulla nuova pagina Fb. Iscriviti anche al Gruppo "Un Unico Copione Un'Unica Regia". Seguici pure su TELEGRAM 1 (La Verità Rende Liberi); e TELEGRAM 2  (Dino Granata), come su Twitter "X" SPN nonché su X (Dino Granata)

Un dirigente dell’Eni, all’epoca dei fatti responsabile del Centro Oli di Viggiano (Potenza), è finito agli arresti domiciliari nell’ambito di un’inchiesta condotta dai carabinieri del Noe e coordinata dalla Procura potentina su una fuoriuscita di petrolio che nel febbraio 2017 contaminò il “reticolo idrografico” della Val d’Agri. L’arresto è stato deciso dal gip di Potenza su richiesta della Procura. Nell’inchiesta sono indagate 13 persone tra le quali anche componenti del comitato tecnico regionale della Basilicata e l’Eni.

Il procedimento penale, nel cui ambito è stata emessa la misura cautelare, riguarda, in qualità di indagati, non solo alcuni dirigenti della suddetta compagnia petrolífera, ma, anche, pubblici ufficiali facenti parte del Comitato tecnico regionale (Ctr) della Basilicata il cui compito era quello di controllare, sotto il profilo della sicurezza e dei rischi ambientali, l’attività estrattiva dell’ENI.

In particolare sono indagate tredici persone fisiche ed una persona giuridica (l’ENI) per i reati di disastro, disastro ambientale, abuso d’ufficio, falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale ed altro.

Le indagini – spiegano gli inquirenti – prendevano avvio nel gennaio 2017, in coincidenza con il rilevamento di un copioso sversamento di “idrocarburi” nel depuratore dell’area industriale di Viggiano, ubicato nei pressi del Centro Oli di Viggiano.

I Carabinieri del Noe, eseguiti numerosi sopralluoghi nell’intera arca industriale, nel febbraio 2017, individuavano, lungo il perimetro esterno dei Centro Olio Vai d’Agri di Eni ubicato a Viggiano, un pozzetto all’interno del quale defluivano incessantemente acque miste a idrocarburi dei tutto simili a quelle rinvenute nel depuratore.

Di seguito veniva disposto il sequestro penale del pozzetto. I campioni dei liquidi prelevati dal pozzetto in sequestro e nel depuratore risultavano sovrapponibili.

Ulteriori accertamenti chiarivano che gli idrocarburi dispersi dall’impianto si erano infiltrati nella rete fognaria consortile, sfruttandone le crepe ed il suo deflusso incontrava
– e, quindi, contaminava – il reticolo idrografico della Val d’Agri non distante (circa 2 km) dall’invaso dei Pertusillo, che rappresenta la fonte primaria di approvvigionamento della gran parte di acqua destinata ai consumo umano della Regione Puglia oltre che la fonte da cui proviene l’acqua indispensabile per l’irrigazione di un area di oltre 35.000 ettari di terreno.

La Procura della Repubblica di Potenza avvalendosi dell’ausilio tecnico di un Consulente disponeva, con decreto, un’ispezione locale eseguita in data 6 marzo 2017 su tutta l’area industriale di Viggiano, ivi compreso il reticolo idrografico, con il supporto del NOE.

La fonte della perdita di idrocarburi veniva individuata nei serbatoi di stoccaggio dei greggio stabilizzato.

Le indagini evidenziavano
la grave compromissione della capacità di tenuta dei serbatoi in cui era contenuto il greggio estratto, cosiddetto greggio stabilizzato (e le indagini evidenzieranno come tali problematiche fossero ben note alla dirigenza del Di Me di Viggiano – unità di vertice dalla quale dipende il Centro Olio Val d’Agri – sin dai 2012) caratterizzati dalla presenza di fori passanti sul fondo dei tanks che avevano dato luogo a perdite di prodotto mai comunicare agli organi competenti.

L’accusa sottolinea come le indagini avessero evidenziato che i serbatoi, all’epoca, erano privi dei doppifondi, misura precauzionale elementare ma di evidente importanza per evitare la dispersione nell’ambiente dei greggio stabilizzato contenuto dei serbatoi (doppi fondi che, infatti, venivano realizzati solo dopo il disastro);

la conseguente sostanziale inerzia dei responsabili dell’impianto ENI rispetto al pericolo di un grave ed incombente pericolo per l’ambiente e per l’eco sistema circostante, ritenuto meno rilevante rispetto alle esigenze produttive;

la consapevole inerzia di un organismo pubblico, quale il Ctr, che aveva il compito di verificare lo stato dell’impianto quanto alia sussistenza dei requisiti indispensabili per impedire danni all’ambiente.

Ed invero, la responsabilità di vigilare sullo stato dei serbatoi e sulla loro tenuta, oltre che sull’ENI, ricadeva sul Comitato Tecnico Regionale della Basilicata (organo di vigilanza sugli impianti a rischio di incidente rilevante, qual è quello di Eni in Val d’Agri) che in occasione del rinnovo dei Rapporto di Sicurezza, con proprio verbale prescrisse maggiore frequenza di controlli sui fondi dei serbatoi valutando l’ipotesi di dotarli di doppio fondo, accettando, poi, contraddittoriamente, in concreto, che tali controlli non venissero espletati con la necessaria e prevista frequenza (circostanza che aveva, poi, una influenza nella determinazione causale dei disastro).

Si accertava, infatti, che le prescrizioni, evidentemente precauzionali, non venivano ottemperate dal gestore dell’impianto, cioè dall’ENI, senza che il CTR intervenisse con provvedimenti inibitori e sanzionatori, divenendo, secondo il costrutto accusatorio, concausa dell’evento di dispersione dei greggio nell’ambiente circostante (peraltro, poi, qualificato come incidente rilevante dal ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare).

AI termine delle investigazioni, da un quadro investigativo ampio e complesso, è stato possibile ricavare, nitidamente, i profili del delitto di disastro ambientale, e, quindi, non solo, la contaminazione e la compromissione di 26mila mq di suolo e sottosuolo dell’area industriale di Viggiano e dei reticolo idrografico a valle dell’impluvio denominato “fossa del lupo”, non solo una situazione di incombente pericolo per uno dei più importanti bacini idrici dell’Italia meridionale, ma anche la compromissione di una vasta area che si trova a cavallo degli impianti ENI e dell’invaso dei Pertusillo.

Tale compromissione era determinata dalla indispensabile opera di bonifica, ancora in corso, dell’area contaminata che ha imposto di estrarre in modo continuo tutte le acque di falda dell’area stessa (oramai contaminate) e trattarle come rifiuto, sicchè se per un verso, si è impedita la propagazione della contaminazione, tuttavia, per altro verso, si è privata delle indispensabili risorse idriche una vasta area della Regione con inevitabile gravi
conseguenze sulla matrice ambientale.