‘Ndrangheta, clan cercavano nuove piste per fare affari. L’incontro coi vertici Udc

Carlomagno

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Cesa e Talarico

Cercavano nuove piste da battere per i loro affari le cosche della ‘ndrangheta e per questo, secondo uno schema ormai consolidato, si rivolgevano a esponenti politici locali e nazionali promettendo loro percentuali sui guadagni e sostegno elettorale. Miravano in alto, ma erano attente a non esporsi tenendo un profilo basso per non dare nell’occhio, anche grazie all’appoggio di talpe negli apparati investigativi.

“Basso profilo” è il nome dato in codice dalla Dda di Catanzaro e dalla Dia all’operazione che stamane ha portato all’esecuzione di 50 ordinanze di misura cautelare, alla notifica di 82 avvisi di garanzia e al sequestro di un ingente patrimonio. Nel nutrito elenco degli indagati uomini dei clan più potenti del Crotonese e delle loro propaggini catanzaresi, professionisti incaricati di ripulire il denaro sporco attraverso società cartiere, ed esponenti politici, come l’assessore regionale al Bilancio Francesco Talarico, segretario regionale dell’Udc, finito agli arresti domiciliari, e il segretario nazionale del partito, Lorenzo Cesa, indagato a piede libero per associazione a delinquere aggravata dal metodo mafioso.

Cesa, che in mattinata, dopo aver ricevuto la notifica dell’avviso di garanzia si è dimesso dal ruolo del partito centrista, dichiarandosi estraneo alle accuse mosse e confermando la piena fiducia nell’operato della magistratura. Cesa sarebbe, secondo la procura catanzarese, il terminale del cartello affaristico venuto alla luce nel corso delle indagini.

A lui, grazie all’intercessione di Talarico, si sarebbero rivolti l’imprenditore Antonio Gallo, referente dei clan e uomo chiave di tutte le operazioni illegali, e due esponenti politici locali, Tommaso e Saverio Brutto, padre e figlio, rispettivamente, all’epoca dei fatti, consigliere comunale di Catanzaro e assessore del Comune di Simeri Crichi (Cz).

Il rapporto fra l’esponente politico nazionale, Gallo e i Brutto sarebbe confermato da un pranzo avvenuto nel luglio 2017 in un ristorante romano. A Cesa i calabresi si sarebbero rivolti nella speranza di ottenere appalti pubblici e possibilità d’espansione in Albania e nell’Est Europa sfruttando il suo ruolo di eurodeputato.

A guadagnarci politicamente sarebbe stato Francesco Talarico che, candidato alle politiche del 2018 avrebbe ottenuto suffragi di clan del Reggino. Ma c’era anche la promessa di soldi: la provvigione garantita ai politici per i loro servigi era del 5% dei guadagni. Antonio Gallo, ha spiegato il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, “è un imprenditore molto eclettico, che lavorava su più piani e riusciva a muoversi con grande disinvoltura quando aveva di fronte lo ‘ndranghetista doc o il politico o l’imprenditore”.

Gallo, ha detto Gratteri, “per creare una sorta di monopolio o almeno oligopolio su un territorio per avere la possibilità di vincere gare truccate per la fornitura di prodotti per la sicurezza sui luoghi di lavoro o attività di pulizia, anche a livelli nazionale. Ecco qui – ha aggiunto il procuratore della Dda di Catanzaro – l’aggancio con la politica. Questa sua voglia di ingrandirsi porta Gallo ad arrivare fino a Reggio Calabria e a rivolgersi a rappresentanti della famiglia di ‘ndrangheta dei De Stefano-Tegano per organizzare la campagna elettorale di Franco Talarico nelle politiche del 2018, e lo porta a salire a Roma per cercare di ottenere degli appalti di levatura nazionale e attraverso Talarico organizza un incontro con Cesa, un pranzo, datato estate 2017”.

Un’indagine estremamente complessa, ha spiegato il direttore della Dia, Maurizio Vallone, “che si connota per la presenza di tanti colletti bianchi, di due politici, uno di livello nazionale e uno regionale, amministratori locali, un importante notaio di Catanzaro, un avvocato, due commercialisti, che erano incaricati di realizzare queste società cartiera, società fantasma che servivano solo per far girare le fatturazioni”.

Impressionante la capacità economica del gruppo criminale: “Il volume d’affari che abbiamo documentato – ha aggiunto Vallone – è assolutamente imponente. Stiamo parlando dell’esame di 1.800 conti corrente, di 388 mila operazioni bancarie: il volume di affari girato in questi due anni di indagine è stato pari a 250 milioni di euro, che hanno riscontrato dichiarazioni di collaboratori di giustizia, e che – ha rilevato il direttore della Dia – hanno consentito ancora oggi di sequestrare a carico degli indagati un’ingentissima somma di contanti che stiamo ancora contando tanta è la quantità. Siamo quasi a un milione di euro in contanti”.

Delle 422 pagine dell’ordinanza del Gip Alfredo Ferraro, 150 sono occupate dai capi d’imputazione per tantissimi reati, tra cui – a vario titolo – associazione a delinquere, voto di scambio, intestazione fittizia di beni, appalti, turbative, rivelazioni del segreto istruttorio. Un terremoto giudiziario che si abbatte su una regione che sarà chiamata alle urne l’11 aprile per eleggere il successore della presidente Jole Santelli, morta prematuramente, e che sfregia ulteriormente l’immagine già compromessa di una classe politica colpita da altre inchieste.