Sergio Romano per il Corriere della Sera
È giusto che l’apparizione in Libia dell’Isis, l’autoproclamato Stato islamico, susciti le nostre preoccupazioni. È naturale che il governo, anche se il premier dichiara che non è tempo d’interventi, debba prendere in considerazione la possibilità di un conflitto.
Il riferimento all’Onu, soprattutto in una situazione in cui l’Italia avrebbe un ruolo di primo piano, è inevitabile. Ricordiamo che cosa accadde quando Berlusconi desiderava competere con la Gran Bretagna per l’ambito ruolo di alleato degli Usa nella guerra irachena. Bastò una riunione del Consiglio superiore di Difesa e un richiamo all’art. 11 della Costituzione sul «ripudio» della guerra, perché la missione militare italiana divenisse una paradossale missione di pace. Per chi voglia opporsi con le armi all’Isis occorre un mandato internazionale.
Ma il mandato dell’Onu da solo non basterebbe. Vorremmo qualche notizia in più sulla natura dei nemici. Chi sono? Una delle tante milizie libiche create dopo la dissennata operazione franco-britannica del 2011? Sono salafiti (una delle varianti più radicali dell’Islam) provenienti dal Sahara? Obbediscono al «Califfo» Al Baghdadi o hanno scelto il marchio di fabbrica che è oggi vincente nella gara del terrore? L’Isis sta combattendo anche una guerra psicologica e non meno pericolosa. Conosciamo male l’organizzazione, ma sappiamo che ogni gruppo terroristico sopravvive soltanto se sostituisce i morti con nuove reclute.
E il reclutamento è tanto più facile quanto più l’organizzazione può rivendicare successi proiettando di se stessa un’immagine di audacia e ferocia . Un governo deve dare la sensazione di non avere sottovalutato il pericolo, ma sbaglierebbe se non ricordasse che un’opinione pubblica allarmata è esattamente l’obiettivo dell’Isis.
Siamo male attrezzati, militarmente e psicologicamente, per vincere guerre di guerriglia contro chi non esita a usare la propria vita come un’arma. La spedizione franco-britannica ha dimostrato che i bombardamenti non bastano a creare le condizioni per una Libia pacificata e rinnovata. Ma potrebbero servire a cacciare l’Isis da Sirte, a impedirgli altre conquiste e a rafforzare le milizie del generale Khalifa Haftar.
La Libia è certamente un problema italiano. Ma è anche un problema mediterraneo e dell’Unione Europea. Francia e Spagna non possono attendere che venga risolto da altri. Una coalizione tripartita, sostenuta da altri Paesi dell’Ue, non sarebbe utile soltanto sul piano militare. Dimostrerebbe che l’Europa non è esclusivamente il luogo in cui si parla di euro, stabilità e crescita. È anche una patria da difendere.