Massimo Franco per il Corriere della Sera (19 dicembre 2014)
Più che gli insulti, ormai quotidiani, rivolti a Giorgio Napolitano, colpisce il tentativo del Movimento 5 stelle di inserirsi nei giochi per il Quirinale. Nel giorno in cui il capo dello Stato conferma «dimissioni imminenti», Beppe Grillo fa sapere di essere pronto a votare «un candidato di altri partiti totalmente al di fuori della politica».
Non si capisce a chi pensi. Si comprende però la logica della sua offerta: vuole sparigliare qualunque gioco parlamentare sulla presidenza della Repubblica, come fece nel 2013 proponendo un giurista come Stefano Rodotà e spaccando il Pd.
Era una mossa prevedibile. Grillo punta a impedire qualunque saldatura tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. E si rende conto che, proprio perché la sua leadership segnala qualche affanno, l’esigenza di dare un segno di vitalità ha nella competizione per il Colle il palcoscenico ideale.
Tra meno di un mese, Napolitano potrebbe essersi già dimesso. E lo stesso Parlamento che un anno e mezzo fa fu costretto a confermarlo, dovrà eleggere il successore. Renzi continua a dirsi sicuro che non si ripeterà il tiro al piccione di allora, che bruciò a uno a uno candidati come Franco Marini e Romano Prodi. «Credo che il Parlamento abbia imparato la lezione dell’aprile 2013 e riuscirà a fare quanto deve nei tempi stabiliti».
Parole impegnative. Riflettono o una strategia già delineata a Palazzo Chigi; o una forte dose di ottimismo; oppure, a sentire i detrattori del premier, una scarsa conoscenza dei meccanismi spietati che scattano quando si corre verso il Colle. Il tentativo è di utilizzare il cosiddetto «metodo Cossiga» che portò all’elezione immediata di Francesco Cossiga nel giugno del 1985.
Ma erano altri tempi e c’era un altro Parlamento. Oggi, significherebbe proiettare sul Quirinale l’asse istituzionale tra Pd e Fi: il patto del Nazareno. È l’alleanza che Grillo vuole far saltare, contrapponendo a questo schema il «metodo della Consulta»: il compromesso raggiunto in aula col Pd per votare insieme i giudici costituzionali. In quell’occasione, era ottobre, si parlò di maggioranze variabili e Fi gridò al tradimento.
In entrambi i casi, a emergere con nettezza è la centralità del partito di Renzi, che in teoria può optare per l’uno o l’altro interlocutore. Ma l’idea di saltare da Fi al M5S non è così semplice da realizzare. Presuppone gruppi compatti, che al momento non si vedono; e la sintonia con un Grillo coerente soprattutto nei suoi piani di destabilizzazione, e imprevedibile nei comportamenti. E poi, la sirena del candidato estraneo alla politica, oltre a essere ambigua e demagogica, verrà usata per alimentare gli umori antirenziani nel Pd.