Omicidio Maria Chindamo, Gratteri: “Non le è stata perdonata sua libertà”

Carlomagno

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“Ci sono vari aspetti sull’omicidio di Maria Chindamo: non le è stata perdonata la sua libertà, la gestione dei terreni avuti in eredità e su cui c’erano gli appetiti di una famiglia di ‘ndrangheta e il suo nuovo amore”. Lo ha detto il Procuratore della Dda di Catanzaro Nicola Gratteri incontrando i giornalisti per illustrare, insieme al colonnello Paolo Vincenzoni, della sezione Crimini violenti del Ros e del colonnello Luca Toti comandante provinciale di Vibo Valentia, i dettagli dell’operazione “Maestrale-Carthago” che ha portato all’esecuzione di 84 misure cautelari.

“Tutto questo perché questa donna, Maria Chindamo – ha aggiunto Gratteri – dopo il suicidio del marito avvenuto l’anno precedente alla sua scomparsa a maggio 2016, ha pensato di diventare imprenditrice di curare gli interessi della terra e dei suoi figli e si è pure iscritta all’università. Questa sua libertà, questa sua voglia di essere indipendente, di essere donna non gli è stata perdonata e tre giorni dopo che aveva postato sui social la foto con il suo nuovo compagno è sparita. La sua uccisione è stata straziante. Oltre ad essere stata data in pasto ai maiali i suoi resti sono stati triturati con un trattore cingolato. Questo dà il senso e la misura della rabbia e del risentimento che chi ha ordinato l’omicidio aveva nei suoi confronti”.

“Lei – ha spiegato ancora il Procuratore – non si poteva permettere il lusso di rifarsi una vita, di gestire in modo imprenditoriale quel terreno e di poter curare e fare crescere i figli in modo libero e uscendo dalla mentalità mafiosa. La famiglia di Maria Chindamo è stata sempre dalla parte della legalità senza se e senza ma, non ha mai tentennato sulla voglia di capire e di avere giustizia. E noi abbiamo apprezzato questo nel corso degli anni. Dal 2016 abbiamo avuto al nostro fianco gli specialisti del Ros crimini violenti che hanno sviscerato ogni aspetto della vicenda attraverso riscontri con strumenti tecnologici e con i riscontri dei collaboratori di giustizia. In questa indagine oltre alle intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali ci sono le testimonianze di 18 collaboratori di giustizia che, anche sull’omicidio Chindamo, hanno fatto dichiarazioni univoche e concordanti e che ci hanno detto cose inedite che loro non potevano sapere ma che già il Ros crimini violenti aveva incamerato come indizi e come elementi di prova”.

“A carico dell’unico arrestato per l’omicidio Chindamo – ha detto il colonnello Paolo Vincenzoni, alla guida del reparto Crimini violenti del Ros, facendo riferimento a Salvatore Ascone arrestato oggi – ci sono elementi che ne accertano la responsabilità relativamente al concorso all’omicidio ovvero alla manomissione dell’impianto di sorveglianza che avrebbe consentito, se non manomesso, di rendere le fasi iniziali dell’aggressione del sequestro della donna. L’accertamento della manomissione dell’hard disk è molto complesso e abbiamo anche dovuto interloquire con non poche difficoltà per la lingua con i tecnici cinesi perché l’impianto è di fabbricazione cinese”.

“Di fatto – ha detto ancora Vincenzoni – l’accertamento non ha chiarito in pieno che si sia trattato di una manomissione ma la manomissione umana rinviene poi da una serie di elementi logico deduttivi che portano univocamente in quella direzione. Si parla di una mancanza di alimentazione che in base ad alcuni elementi porta necessariamente a far sì che sia stata la mano dell’uomo a manomettere questo sistema di videosorveglianza”.

“In questa indagine – osserva il colonnello –, non c’è solo l’aspetto tecnico delle riprese o delle intercettazioni ma ci sono le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Sono stati loro a riscontrare il nostro lavoro e non viceversa, riportando esattamente proprio quello che noi avevamo ricostruito”.

Quello che ha portato all’operazione di oggi “è un importante sforzo investigativo che ha portato alla disarticolazione delle cosche – ha detto dal canto suo il colonnello Luca Toti, comandante provinciale dei carabinieri di Vibo Valentia – e che è durato 3 anni. Sono 170 i soggetti indagati con 200 capi d’imputazione. Ogni gruppo reclamava la propria quota estorsiva ed è accaduto anche che, un’importante azienda che si occupa di rifiuti abbia dovuto pagare 50 mila euro all’anno. A Mileto c’era l’ala militare con armi importate dall’estero come i micidiali Kalashnikov e con capacità di creare contatti anche con altre strutture di ‘ndrangheta come quelle di Gioia Tauro e Rosarno”.