Attilio Bolzoni per La Repubblica
Da quando esiste – una cinquantina d’anni ufficialmente – non è mai stata così ubbidiente, cerimoniosa e attratta dal potere. Più attenta all’estetica che all’etica, l’Antimafia sta attraversando la sua epoca più oscurantista. Proclami, icone, pennacchi, commemorazioni solenni e tanti, tanti soldi. C’è un’Antimafia finta che fa solo affari e poi c’è anche un’Antimafia ammaestrata.
Ne è passato di tempo dalle uccisioni di Falcone e Borsellino e il movimento, che era nato subito dopo l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e che aveva trovato nuova forza dopo le stragi del 1992, sopravvive fra liturgie, litanie e un fiume di denaro. Tutto ciò che conquista lo status di antimafia «certificata» si trasforma in milioni o in decine di milioni di euro, in finanziamenti considerevoli a federazioni antiracket, in contributi per «vivere la neve» (naturalmente con legalità), in uno spargimento di risorse economiche senza precedenti e nel più assoluto arbitrio.
È un’Antimafia sottomessa. Soggetta all’altrui benevolenza e alla concessione di un generoso Pon (Programma operativo nazionale Sicurezza e Sviluppo, ministero dell’Interno) o di somme altrettanto munificamente elargite dalla Pubblica Istruzione, la sua conservazione o la sua estinzione è decisa sempre in altro luogo. Così il futuro di un circolo intitolato a un poliziotto ucciso o a un bambino vittima del crimine, di uno “sportello” anti-usura, di un “Osservatorio” sui Casalesi o sui Corleonesi, di un Museo della ‘Ndrangheta, è sempre appeso a un filo e a un “canale” che porta a Roma. C’è chi chiede e chi offre. Il patto non scritto è non disturbare mai il potente del momento. Addomesticata, l’Antimafia è diventata docile e malleabile.
È un’inclinazione che naturalmente non coinvolge tutte le associazioni (anche se, in più di un’occasione, lo stesso don Ciotti ha strigliato i suoi per una certa inadeguatezza di conoscenza e un conformismo che si è diffuso dentro Libera), ma gran parte dell’Antimafia sociale ormai è in perenne posa, immobile, come in un fermo immagine a santificare “eroi” e a preoccuparsi di non restare mai con le tasche vuote.
È un’Antimafia consociativa. Dipendente da quella governativa che presenzia pomposamente agli anniversari di morte, che organizza convegni alla memoria, che firma convenzioni e protocolli con gli amici che sceglie a suo piacimento sui territori. A parte il caso estremo del presidente di Sicindustria Antonello Montante – indagato per concorso esterno, a capo di una consorteria che ha occupato ogni luogo decisionale della Regione, comprese quelle camere di commercio siciliane dove è stato appena arrestato il suo vice Roberto Helg per una tangente di 100mila euro – e a parte gli inevitabili approfittatori o i saltimbanchi che girano l’Italia come al seguito di un circo, la questione che stiamo dibattendo è molto più seria e profonda proprio perché è quasi l’intero movimento antimafia che si è svilito.
In questo clima felpato e silenziato anche il fronte giudiziario ha perso molte delle sue energie. Se si escludono singoli magistrati, anche capi degli uffici – a Roma, Reggio Calabria, in Sicilia, a Milano, a Bologna – in troppi guardano molto al passato e poco al presente, alla faccia nuova del crimine. C’è difficoltà nell’intercettare le evoluzioni del fenomeno e nell’analisi.
Qualche giorno fa, la relazione annuale (periodo dal 1 luglio 2013 al 30 giugno 2014) del procuratore nazionale Franco Roberti non ha offerto un solo spunto originale, fra 727 pagine neanche qualche riga dedicata al mutamento dei rapporti delle mafie con la politica e con i poteri economici sospetti. Una relazione innocua. Unico «scatto» il riferimento ai silenzi della Chiesa (dimenticando gli effetti clamorosi nelle diocesi dopo il viaggio di Papa Francesco in Calabria dell’anno scorso) che ha provocato la reazione di Nunzio Galantino, il segretario della Conferenza Episcopale Italiana: «Procuratore, questa volta ha toppato».
È un’Antimafia sempre più cauta. Soprattutto quando si avvicina dalle parti del Viminale. Dopo Claudio Scajola (arrestato per concorso esterno) e dopo Annamaria Cancellieri (in rapporto trentennale intenso con una delle famiglie di più cattiva reputazione del capitalismo italiano) è arrivato dalla Sicilia Angelino Alfano. È uno di quelli che insieme al suo grande amico Totò Cuffaro (arrestato per mafia) rivendicò a Palermo la paternità dello slogan «la mafia fa schifo».
È sempre stato legatissimo al Cavaliere Silvio Berlusconi (sotto sospetto permanente di legami con Cosa Nostra attraverso Marcello Dell’Utri) fin da quando è entrato in Parlamento. È lui che qualche settimana fa ha ancora fortissimamente voluto Antonello Montante (indagato per mafia) all’Agenzia nazionale per i beni confiscati. La domanda rischia di scivolare nella banalità: come si combina la tanto sbandierata (e crediamo sincera) fede antimafia del ministro Alfano con quei rapporti politici e personali così stretti, con un’intimità così spinta verso personaggi che a svariato titolo e nelle più diverse situazioni non hanno certo titolo per vantare titoli antimafia realisticamente cristallini (Cuffaro e Berlusconi) o ricoprire incarichi istituzionali (Montante)? Ministro Alfano, non basta dire «la mafia fa schifo».
L’Antimafia ormai è materia sfuggente o addirittura materia d’indagine, come dimostrano negli ultimi giorni e negli ultimi mesi i “paladini” finiti in carcere o invischiati in losche faccende. Come fa a non saperlo anche Alfano che nell’ottobre del 2013 ha voluto portare a Caltanissetta – la città dove Montante ha il suo quartiere generale – il comitato nazionale di ordine pubblico e sicurezza? In Sicilia non accadeva dai giorni delle stragi Falcone e Borsellino. Cosa è avvenuto, nel centro Sicilia, di così straordinario o di così drammatico per far arrivare capo della polizia, comandanti di Arma e Finanza, i direttori dei servizi di sicurezza?
Nulla, assolutamente nulla. Ma anche lì, a Caltanissetta, serviva un bollo, uno di quei “certificati” per dichiarare quella città capitale dell’Antimafia. “Zona franca per la legalità” d’altronde l’aveva già battezzata il governatore Raffaele Lombardo, uno condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi per reati di mafia. Ecco perché, fra tanti travestimenti e ambiguità o semplici equivoci, forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando.