27 Aprile 2024

Il Sionismo e il Genocidio dei Palestinesi (1948-2023)

Il Teologo Don Curzio Nitoglia spiega le origini dell'occupazione israeliana-sionista della Palestina e il massacro incessante del popolo arabo in 76 anni, scacciato con inaudita violenza dalla loro terra

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di Don Curzio Nitoglia *

Introduzione

Padre Giovanni Sale ha scritto un interessante articolo su “La Civiltà Cattolica” (quaderno 3854 del 15 gennaio 2011), intitolato La fondazione dello Stato di Israele e il problema dei profughi Palestinesi (pp. 107-120). Innanzitutto, ci ricorda che i primi “kamikaze terroristi” furono proprio gli Israeliani e non gli Arabi, come oggi si pensa comunemente. Infatti, il 22 luglio del 1946 l’Irgun fece scoppiare una carica di dinamite nell’Hotel King David dove risiedeva il “Quartier generale” della Gran Bretagna, uccidendo 91 persone. Seguirono altri attentati (ad esempio, fatto quasi sconosciuto, il 30 ottobre del 1946 gli stessi terroristi dell’Irgun distrussero con un attentato dinamitardo l’ambasciata britannica a Roma, Ndc.) e così l’Inghilterra decise, nel febbraio del 1947, di rinunciare al mandato sulla Palestina (p. 108). Inoltre ricorda che già nel 1946 vi fu una forte “pressione” (“lobbyng”) della comunità ebraica americana sul Presidente Truman, il quale per la nuova campagna presidenziale aveva bisogno dei soldi e dei voti degli ebrei-americani. Nel medesimo anno anche l’Urss di Stalin si dichiarò favorevole alla spartizione della Palestina. Il “Dipartimento di Stato” statunitense non era d’accordo con l’“Amministrazione presidenziale”, ma fu proprio grazie all’intervento dell’ “Amministrazione americana” che il deserto del Negev fu incorporato allo Stato di Israele e non alla Palestina come avrebbe voluto il “Dipartimento di Stato”. Perciò, già nel 1946 era stato deciso, sulla pelle dei Palestinesi, che Israele avrebbe occupato «il 55% della Palestina, con una popolazione israelita di 500 mila persone». Ora, ci si domanda, com’era possibile, secondo giustizia, che il 37% della popolazione ebraica ottenesse il 55% del territorio palestinese, del quale sino ad allora aveva posseduto solo il 7%? La risposta è sempre e solo la solita: la shoah del popolo ebraico gli dava il diritto a una Patria. Ma, si ribatte, cosa c’entravano i Palestinesi con il torto subìto dagli ebrei in Europa nord-orientale? Uno storico palestinese ha scritto a proposito: «I Palestinesi non capivano perché si facessero pagare a loro i conti dell’olocausto. […]. Non capivano perché fosse ingiusto che gli Ebrei restassero minoranza in uno Stato palestinese unitario, e invece fosse giusto che quasi la metà degli Arabi palestinesi diventasse dalla sera alla mattina una minoranza soggetta a un potere straniero». Evidentemente la legge non è eguale per tutti.

Il peso della shoah

Come si può costatare, esso è stato enorme, politicamente ed economicamente (risarcimenti), militarmente (guerre che ancora oggi perdurano e forse termineranno in un grande conflitto nucleare), religiosamente (giudaizzazione dell’ambiente cristiano e cattolico a partire dal Vaticano II). L’Occidente e l’Europa, caduti in un senso di colpa collettiva, “psicanaliticamente indotta”, hanno pensato di riparare al male fatto (o fatto credere dalla psicanalisi di massa della “psico-polizia”). La shoah continua a pesare, ma si sente qualche scricchiolio, che si cerca di puntellare con leggi penali e “storicide”, specialmente difronte al genocidio dei Palestinesi perpetrato dallo Stato d’Israele (7 ottobre 2023 – febbraio 2024). La prima guerra arabo-israeliana si può dividere in due fasi: 1°) la prima dal novembre 1947 al 14 maggio 1948; 2°) la seconda dal 15 maggio del 1948 all’ottobre del 1949. La prima fase fu soprattutto una guerriglia, ma assai cruenta, basti pensare al massacro di 100 civili Palestinesi da parte dell’Irgun, il 9 aprile 1948, nel villaggio di Deir Yassin. La seconda parte, invece, fu una vera e propria guerra convenzionale. Essa fu caratterizzata da un episodio cruciale che determinò la sconfitta degli Arabi, in maniera scorretta, da parte degli Israeliani. Infatti, l’11 giugno del 1948 il conte svedese Folke Bernadotte (che poi fu assassinato da alcuni terroristi del Lehi) riuscì a negoziare una tregua. Essa fu accolta da Israeliani e Palestinesi ma, «Israele approfittò di tale periodo, violando i termini della tregua, per acquistare dalla Cecoslovacchia una grande quantità di materiale bellico [del III Reich tedesco], rimasto inutilizzato dopo la seconda guerra mondiale. Quando la guerra riprese l’8 luglio del 1948, l’esercito israeliano, utilizzando le nuove forniture europee (e statunitensi), nel giro di pochi giorni ebbe il sopravvento sugli eserciti arabi. […]. In questo modo furono occupati molti villaggi arabi e le città di Lydda e Ramallah» (p. 114). Il genocidio dei Palestinesi da parte d’Israele iniziò proprio allora. Infatti, la città di Lydda fu occupata e vi fu una vera e propria «pulizia etnica» poiché circa 70mila abitanti di Lydda furono espulsi e spinti a piedi nella “marcia della morte” verso Ramallah, e, sotto il sole estivo, morirono numerosi bambini e vecchi. L’ordine di espulsione fu dato personalmente da Ben Gurion il 12 luglio. È lecito parlare di “genocidio”? Oppure l’unico genocidio è quello del popolo ebraico da parte del III Reich germanico? Nella storia vi sono innumerevoli genocidi; quasi ogni guerra ha comportato un genocidio o una “pulizia etnica” da parte dei vincitori nei confronti degli sconfitti. Per esempio, cinque milioni di Amerindiani o Indiani d’America furono sterminati in quanto Amerindi (“American Indian”) dai coloni inglesi e olandesi che occuparono il nord America nel XVII-XVIII secolo. Un milione e mezzo di Armeni, tra il 1894 e il 1918, furono massacrati in quanto Armeni e cristiani dagli Ottomani turchi e musulmani. Gli Italiani furono massacrati e gettati vivi nelle foibe in Istria, tra il 1945-46, dai “titini” slavi a migliaia solo perché Italiani. Il decennio che iniziò col 1990 vide la “pulizia etnica” di centinaia di migliaia tra Serbi, Bosniaci, Kosovari, Croati. Se si pensa all’Africa, cosa dire del Ruanda, degli Utu e Tutzi, i quali si sono massacrati reciprocamente – arrivando attorno alla cifra di 2milioni di vittime – sino a qualche anno fa? Eppure non è “politicamente corretto” parlare di genocidio per costoro. Sembra che vi sia stato un solo genocidio, anzi “IL” genocidio del popolo ebraico nel 1942-45. Chi lo mette in dubbio così com’è presentato dalla propaganda dei vincitori, o cerca di stabilire cifre, studiare la questione, in alcuni Paesi va in galera. Ora, perché non lasciare agli storici e agli scienziati la possibilità e libertà di ricercare da vicino i luoghi, i documenti, il corpo del reato? Altrimenti, anche i Palestinesi potrebbero invocare un “reato di negazionismo” del genocidio che hanno sofferto nel 1948 e continuano a soffrire ancora oggi a Gaza (una striscia desertica, che racchiude – come un campo di concentramento – due milioni e mezzo di persone, bombardate, ripetutamente dall’aviazione israeliana, dal 7 ottobre 2023 e senza sosta, con 26mila morti Palestinesi, di cui la metà bambini).

La ‘shoah’ o ‘nakba’ palestinese

«Sta di fatto che alla fine della prima guerra del 1948, meno della metà della popolazione palestinese si trovava ancora nella terra nativa. […]. Sul numero dei profughi si è molto discusso in passato: gli Israeliani parlavano di circa 500mila profughi, i palestinesi invece di un milione e mezzo di persone espulse. Secondo gli storici contemporanei il numero dei profughi si aggirerebbe attorno ai 700-800 mila» (pp. 115-116). Come si vede si può lecitamente discutere, studiare, ricercare le fonti sulla reale entità della “catastrofe” palestinese, ma per legge è vietato agli storici di far ricerca storica sulle fonti della “catastrofe” ebraica del 1942-45. Inoltre anche per i Palestinesi vale la domanda che l’Europa si pone sulla propria cecità di fronte alla catastrofe ebraica del 1942-45: «Come mai un numero così grande di persone nel giro di pochi mesi ha dovuto abbandonare la propria terra senza che nessuno in occidente se ne preoccupasse? La tesi ufficiale sostenuta da Israele è che i Palestinesi abbandonarono “volontariamente” il loro territorio. […]. I Palestinesi, al contrario, hanno sempre sostenuto che i profughi erano stati espulsi in modo sistematico e premeditato dall’esercito israeliano» (p. 116).

Revisionisti palestinesi

Il primo storico che ha confutato la vulgata israeliana sul problema dei profughi palestinesi è stato il palestinese Walid Khalidi nel suo libro succitato “All That Remains” del 1992. «Egli, consultando gli archivi palestinesi e raccogliendo la memoria dei testimoni, ha ricostruito in modo analitico – riportando l’elenco esatto dei villaggi distrutti – la “catastrofe”, cioè la “nakbah”, vissuta dal suo popolo. Tale studio ebbe poca eco tra gli storici occidentali, e si continuò a ripetere la vulgata israeliana dell’ “esilio volontario dei Palestinesi”» (p. 116). Poi lo storico israeliano Benny Morris ha dedicato tre volumi a questo tema (Vittime; 1948: Israele e Palestina tra guerra e pace; Due popoli una terra) secondo Morris i Palestinesi non sarebbero stati cacciati di proposito, ma conseguentemente alla guerra arabo-israeliana avrebbero preferito l’esilio allo stato di conflitto ed avrebbero lasciato la Palestina spinti dalla guerra e dalle “rappresaglie” dell’Haganah. L’espulsione dei Palestinesi, secondo Morris, non sarebbe mai stata decisa e decretata dal Governo di Tel Aviv e dall’Esercito israeliano, ma sarebbe avvenuta in quelle determinate circostanze di guerra “civile”. Infine lo storico israeliano Ilan Pappe nel suo libro “La pulizia etnica della Palestina” ha confutato la tesi di Morris e si è avvicinato a quella di Khalidi, dimostrando – documenti alla mano – che il progetto d’espulsione fu pianificato il 10 marzo 1948 a Tel Aviv, nella sede dell’Haganah dai Governanti e Militari d’Israele: «Gli ordini erano accompagnati da una minuziosa descrizione dei metodi da usare per cacciare via la popolazione con la forza: assedio e bombardamento dei villaggi, incendi di case, espulsioni, demolizioni, e infine collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di ritornare»; in caso di resistenza «le milizie armate dovranno essere eliminate e la popolazione civile espulsa fuori dei confini dello Stato». Padre Giovanni Sale commenta «tali ordini furono poi trasmessi alle singole brigate che avrebbero provveduto a metterli in atto: il piano era il prodotto inevitabile della determinazione sionista ad avere un’esclusiva presenza ebraica in Palestina, e questo poteva essere realizzato soltanto eliminando la presenza dei nativi dal territorio» (p. 118). Ilan Pappe conclude: «l’obiettivo principale del movimento sionista nel creare il proprio Stato nazionale era la pulizia etnica di tutta la Palestina». Questa verità storica, dimostrata da fatti e documenti, viene ancor oggi sistematicamente negata.

Epilogo

Riflettendo a mo’ di conclusione su quanto letto si può dire con tutta certezza, e senza paura di essere tacciati quali nazisti o antisemiti, ciò che segue: 1°) Coloro i quali parlano di “pulizia etnica” fatta dagli Israeliani nei confronti dei Palestinesi sono uno storico ebreo vivente attualmente in Israele, Ilan Pappe, che ha scritto un libro intitolato precisamente “La pulizia etnica dei Palestinesi” e uno storico gesuita professore alla Pontificia Università Gregoriana, padre Giovanni Sale, che ne ha scritto su La Civiltà Cattolica, la quale è l’organo ufficiale della S. Sede e le cui bozze vengono lette e corrette dalla Segreteria di Stato vaticana prima di essere pubblicate. Quindi gli autori citati sono storici seri e professionalmente qualificati, non sono estremisti antisemiti di destra o di sinistra, ma hanno raccolto fatti, documenti e testimonianze per scrivere e provare quanto sopra. 2°) Inoltre in un certo qual modo la S. Sede ha finalmente ritenuto opportuno pubblicare la verità, anche se “politicamente scorretta”, del genocidio subìto dai Palestinesi da parte del neonato Stato di Israele. 3°) La parola “pulizia etnica” o “genocidio” può sorprendere se non è applicata al popolo ebraico come vittima ma come Stato carnefice, che ha pianificato assieme all’Esercito israeliano l’espulsione di un popolo e l’uccisione di molti suoi membri per impossessarsi della sua terra. Tuttavia Ilan Pappe ne fornisce tutte le prove. 4°) La cifra di questo genocidio subìto dai Palestinesi è liberamente discussa e ricercata scientificamente, senza dover cadere per questo sotto la mannaia di leggi liberticide e “storicide”, come invece succede per la shoah degli ebrei. Infatti, gli autori palestinesi parlano di 1 milione e mezzo di vittime tra morti e sfollati; invece, gli storici “politicamente corretti”, sia ebrei che non-ebrei, parlano di 500 mila vittime, ossia un terzo di quelle date dai Palestinesi; mentre, gli storici attuali, anche israeliani, che cercano la verità dei fatti e non la “correttezza politica”, parlano di circa 800 mila vittime. Perché, allora, ci si domanda, non è lecito fare la stessa cosa riguardo alla cosiddetta “shoah”? Fare storia e non “politicismo-corretto” è un reato, un peccato? Purtroppo sì! Infatti, si finisce in prigione. 5°) Infine il nodo che resta e che se, non viene sciolto porterà, molto probabilmente, alla guerra nucleare – dal Medio Oriente al Mondo intero – è come mettere d’accordo Palestinesi e Israeliani. È giusto che Israele possieda l’80% della Palestina e che i Palestinesi siano confinati in Cisgiordania e nel deserto di Gaza (dalla quale stanno per essere definitivamente espulsi), che è un vero e proprio “campo di concentramento”? Si può invocare la ‘shoah’ per giustificare la ‘nakba’? Cosa c’entrano i Palestinesi con i Tedeschi?

*  Don Curzio Nitoglia, Religioso, Teologo e Tomista (fonte intervento)


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