Associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, detenzione illegale di esplosivo ed armi. Con queste accuse i carabinieri del comando provinciale di Bari hanno eseguito venti ordinanze di custodia cautelare in carcere, emesse dal gip presso il Tribunale di Bari su richiesta della locale Direzione distrettuale antimafia.
Secondo le forze dell’ordine gli indagati avrebbero costituito un sodalizio criminale dedito al traffico di sostanza stupefacente, diretto e promosso da soggetti vicini al clan Pistillo, che opera ad Andria e nel nord Barese.
Il gruppo, del quale ritengono gli inquirenti fanno parte le 20 persone arrestate ed altri indagati, aveva una struttura gerarchicamente articolata, composta da organizzatori, promotori, dirigenti e partecipanti, che grazie al controllo del territorio “sulla scorta delle qualità mafiose dei promotori” riusciva a gestire “il mercato degli stupefacenti”, ricorrendo “all’occorrenza alla violenza e all’utilizzo di armi e munizioni”. Del gruppo facevano parte anche alcune donne.
Nel corso delle attività, in diverse fasi, sono state sequestrati dalle forze dell’ordine, fra l’altro, più di 3 chilogrammi di tritolo, sei pistole, un fucile semiautomatico, circa 500 munizioni. Sequestri che hanno interessato anche diversi quantitativi di droga; in particolare 40 chilogrammi di sostanza stupefacente tra marijuana, hashish e cocaina.
Le indagini della Dda di Bari che oggi hanno portato all’arresto di 20 persone ritenute appartenenti al clan Pistillo di Andria sono cominciate nel 2020, dopo un attentato dinamitardo nei confronti dell’auto di un vicebrigadiere dei carabinieri che aveva partecipato ad operazioni contro lo stesso clan.
Il fatto avvenne l’11 febbraio di quell’anno e l’auto dell’uomo, residente a Ruvo di Puglia (Bari), fu fatta esplodere con un ordigno artigianale in piena notte.
Le indagini successive, pur non riuscendo a dimostrare la matrice dell’attentato, hanno però dato agli inquirenti numerose informazioni relative all’organizzazione gerarchica e all’attività dell’associazione. Un sodalizio che, pur avendo sede “operativa” ad Andria, aveva collegamenti anche con il clan Capriati di Bari e con altre realtà criminali dei comuni limitrofi e delle province di Brindisi e Taranto.
Nei confronti dell’associazione, la Dda ha infatti riconosciuto l’aggravante del metodo mafioso sia nel continuo ricorso ad atti intimidatori, sia nell’utilizzo dei proventi del traffico di stupefacenti per agevolare la sopravvivenza del sodalizio e dei suoi membri in carcere.
In particolare, alcuni indagati – intercettati – parlavano di Andria come di “paese nostro”, ed erano soliti risolvere le controversie sulle piazze di spaccio ricorrendo alle armi: “I membri del clan – ha detto il sostituto procuratore Daniela Chimenti – usavano abitualmente la violenza per chiudere le questioni sulla gestione dello spaccio ad Andria. In un caso, dopo un litigio tra alcuni di loro e altri esterni all’associazione, i primi non esitarono ad armarsi per ristabilire il loro predominio territoriale sulla città”.
Nell’inchiesta della Dda sul clan Pistillo di Andria è emerso il ruolo decisivo di tre donne, di cui due (di 37 e 40 anni) mogli dei capiclan Michele e Francesco Pistillo, in carcere dal 2000.
Le due, di fatto, gestivano l’associazione consentendo ai due capi di continuare a controllarla dal carcere, ed erano in grado non solo di dare ai sodali le direttive dei boss, ma anche di gestire le risorse finanziarie del clan, organizzando autonomamente le “spartenze” delle piazze di spaccio e del denaro.
La terza donna arrestata, di 39 anni, non era moglie di un capo ma era pienamente coinvolta nel traffico degli stupefacenti.
“Va abbandonata l’idea romantica del ruolo di freno che le donne avrebbero rispetto all’attività degli uomini – ha detto il procuratore aggiunto Francesco Giannella, coordinatore della Dda di Bari -. Anzi, da tempo assistiamo a una crescita dell’importanza del loro ruolo nelle organizzazioni malavitose del territorio. Oggi, in molti casi, le donne sono quantomeno luogotenenti di mariti o compagni detenuti, e gestiscono per conto loro il traffico degli stupefacenti”. “In passato – ha aggiunto Giannella – ci sono state storiche collaboratrici di giustizia che hanno rotto gli schemi dei clan e aiutato in maniera decisiva le indagini. Adesso, però, non è più scontato che sia così”.