Da Gaza Michele Giorgio per il Manifesto (24 luglio 2014)
Safwat è tutto sudato, è appena tornato da Khuzaa, dal «fronte meridionale», così come a Gaza ora chiamano tutta la zona sudorientale di Khan Yunis, la seconda città della Striscia. Lavora come producer per una nota televisione araba e gira immagini, organizza delle dirette dalle zone più a rischio, mette ogni giorno in pericolo la vita dell’intera troupe. «E proprio difficile lavorare lì, gli israeliani sparano in continuazione, non smettono un minuto. Ad un certo punto siamo stati costretti a tornare all’auto e ad andare via». Safwat non ha dubbi che a Khuzaa stia avvenendo un altro massacro, come domenica a Shujayea. «Quando lasceranno portare via morti, ci renderemo conto che è stata un’altra strage», dice scuotendo la testa.
I primi bilanci che arrivano da quell’area parlano di 10 mortì e numerosi feriti. Ma diversi corpi sono ancora sul campo, inclusi, pare, quelli di quattro comandanti militari del Jihad. I bilanci riferiscono anche della fuga di migliaia di abitanti, in preda al panico. Vanno ad aggiungersi ai 140mila che vivono ammassati in 83 scuole ed istituzioni deU’Unrwa (Onu). Le scene sono simili a quelle viste domenica a Shujayea, popoloso quartiere orientale di Gaza city. Khuzaa è un centro agricolo alle porte di Khan Yunis usato come base di lancio, dice Israele, dei razzi sparati verso il sud dello Stato ebraico.
Il cannoneggiamento è stato incessante, ci dicono, e feroci sono stati gli scontri tra truppe israeliane e combattenti di Hamas, appoggiati da militanti di varie fazioni, islamiste e di sinistra. Combattono un po’ tutti ma non i salafisti di Rafah che, ci spiegano, non intedono partecipare alla guerra dei rivali Hamas contro Israele.
I live blog dei giornali israeliani parlano di almeno 210 uomini di Ezzedin al Qassam uccisi da quando è cominciata l’offensiva di terra. Ma pesa anche il numero dei soldati israeliani morti, 32, molti dei quali appartenenti alle unità scelte della Brigata Golani. Gli ultimi tre ieri. I palestinesi, scrivono gli stessi analisti israeliani, stanno dimostrando una buona organizzazione militare, ben superiore a quella che si attendevano a Tei Aviv.
[flagallery gid=6]Sono in difficoltà di fronte ad un esercito tra i più potenti al mondo, che fa abbondante ricorso all’aviazione e all’uso dei mezzi corazzati, eppure riescono ancora ad ostacolare i piani militari israeliani. E sono sempre in grado di lanciare razzi – anche se il loro numero è diminuito negli ultimi 2-3 giorni – e alla fine hanno raggiunto lo scopo di bloccare i voli internazionali da e per l’aeroporto di Tei Aviv (260 sino a ieri sera), con grave danno per il settore turistico israeliano.
«La chiusura dello spazio aereo è una grande vittoria della resistenza», ha commentato con evidente soddisfazione il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri. Israele è stato perciò costretto ad aprire il piccolo aeroporto di Ovda, nel Neghev, per invogliare le compagnie aeree intemazionali a non interrompere i collegamenti. Ieri non eravamo a Khuzaa, ma alle porte di Shajayea, in attesa della tregua umanitaria di due ore chiesta dalla Croce Rossa – anche per Beit Hanun – e concessa dalle due parti.
Per ore sono rimasti con i motori accesi le ambulanze e mezzi dei vigili del fuoco, un convoglio al quale poi è stato dato il via libera. I giornalisti invece sono stati fermati. Qualche fotografo è riuscito ugualmente ad entrare. Ma non avremmo visto molto. Come era accaduto già domenica scorsa, la tregua in realtà non c’è stata. I cannoneggiamenti sono ripresi subito, seguiti dall’abituale scambio di accuse tra le due parti. Tutto ciò mentre giungevano gli echi del bombardamento aereo dell’ospedale Wafa che – afferma Israele – era stato occupato da combattenti di Hamas.
Al ritorno i soccorritori hanno pronunciato una frase da far gelare il sangue: «Shujayea sembra essere stato investito da un terremoto». Dalla memoria collettiva palestinese sono riemersi i massacri del passato: Deir Yassin, Tel al Zaatar. Sabra e Shatila, i campi di Jenin e di Nahr al Bared. Nomi scolpiti nel sangue. La gente di Shujayea abbiamo avuto modo di incontrala a qualche chilometro di distanza, sul piazzale davanti all’ospedale Stufa e nei giardinetti.
Almeno 3 mila sfollati del quartiere ora vivono all’aperto nell’area occupata dalla struttura sanitaria più importante di Gaza, considerata il luogo più sicuro della Striscia. Fino ad un certo punto, però. Perché ieri sono girate voci di una «intimazione» data da Israele al personale medico dello Stufa ad abbandonare l’ospedale, poi smentite dal ministero della salute palestinese. Israele ha reagito con rabbia alla risoluzione approvata dal Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani che chiede una commissione di inchiesta intemazionale per condurre un’indagine su tutte le violazioni nella Striscia di Gaza.
Il testo è stato approvato dai 47 paesi membri e punta ad accertare i crimini di guerra commessi dall’inizio dell’operazione «Margine Protettivo». Gli Usa hanno votato contro, l’Italia, come molti altri paesi europei, si è astenuta. A favore 29 voti, tra cui quello della Russia. Secondo Tel Aviv è una congiura contro lo Stato di Israele che si sarebbe solo difeso dal lancio di razzi palestinesi.
«La decisione del Consiglio Onu per i diritti umani è una parodia e dovrebbe essere rigettata da ogni persona decente ovunque», ha commentato il premier Netantyahu. I numeri della guerra però parlano chiaro, non lasciano spazio a dubbi. Negli ultimi due giorni a Gaza, ogni ora è stato ucciso un bambino, 147 dal 7 luglio, ha denunciato ieri la vicesegretario generale Onu per gli Affari umanitari Kyung-wha Kang. «Dal 7 luglio, più di 600 palestinesi sono stati uccisi a Gaza ed altri 3.504 sono stati feriti in seguito al lancio dell’operazione militare israeliana «Protective Edge» in cui sono stati colpiti più di 2.900 bersagli in Palestina», ha affermato Kyung wha Kang intervenuta al Consiglio dei Diritti Umani. A Gaza, ha aggiunto, 443 vittime, pari a più del 74% delle persone uccise, sono civili e un terzo dei civili morti fino ad ora sono minorenni. Ieri sera era atteso un discorso in tv del leader politico di Hamas, Khaled Mashaal, che, stando alle indiscrezioni, era pronto ad offrire 24 ore di tregua unilaterale.
Non era nota la posizione di Israele. Il cessate il fuoco permanente pertanto è ancora lontano, anche se Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mäzen, lascia intendere che la proposta che ha presentato – tregua subito, seguita da cinque giorni di trattative – sta facendo progressi. Da Gaza però non ci sono conferme.