I sistemi vulcanici attivi hanno le vene e si comportano come valvole. A comprendere il ruolo di queste manifestazioni idrotermali, uno studio firmato INGV, pubblicato su Scientific Reports – Nature
Queste vene, sono fratture riempite da minerali depositati da fluidi. Da sempre poco studiate, queste strutture sono in grado di fornire informazioni preziose sull’evoluzione e sulla dinamica a lungo termine dei vulcani e dei sistemi idrotermali.
A dirlo un team di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) che hanno analizzato queste strutture nell’Isola di Lipari. La ricerca è stata pubblicata su Scientific Reports – Nature.
“Questo lavoro”, spiega Guido Ventura, ricercatore INGV, “intende capire come si sono formate le vene e perché. I dati raccolti non solo hanno consentito di ricostruire la storia di queste strutture, ma anche di determinare le variazioni di permeabilità e pressione nella crosta, oltre alla profondità della sorgente dei fluidi che hanno depositato il solfato di calcio idrato nelle vene”.
I vulcani funzionano come una valvola e la loro attività non è controllata solo dalla risalita di magma. I fluidi rilasciati in profondità, infatti, risalgono verso la superficie, riempiono le fratture esistenti, per poi depositare minerali, ‘sigillando’ la crosta come un tappo che impedisce al magma e agli altri fluidi di risalire. Questo processo si ripete nel tempo ed è controllato dalla composizione dei fluidi e dalla tettonica.
“Una diminuzione delle emissioni di gas in superficie”, prosegue il ricercatore, “non è quindi correlato univocamente a un decremento del rilascio di gas dal magma, ma riflette una fase di pressurizzazione del sistema vulcanico che potrebbe precedere esplosioni idrotermali ed eruzioni vulcaniche. Questo porterebbe a re-interpretare i dati di monitoraggio dei vulcani attivi come i nostri Campi Flegrei e lo Yellowstone negli stati Uniti ”.
Le vene giocano un ruolo fondamentale nella dinamica dei sistemi vulcanici perché in qualche modo ‘sigillano’ la crosta, determinando così una riduzione di permeabilità e un sollevamento.
“Questa crosta”, continua Ventura, “impedisce, infatti, che nuovi fluidi risalgano creando delle sacche di sovrappressione in profondità. Un aumento di pressione potrebbe fratturare il sistema, produrre una esplosione idrotermale o addirittura innescare una eruzione vulcanica per decompressione istantanea della camera magmatica. Quando il sistema è, invece, ormai fratturato, un altro ciclo di deposizione e di formazione delle vene ha un nuovo corso”.
L’implicazione principale dello studio riguarda il monitoraggio delle aree vulcaniche attive. “Come noto”, aggiunge il ricercatore, “una diminuzione del degassamento in una area vulcanica attiva è generalmente interpretato come un raffreddamento del sistema magmatico o un decremento nel rilascio di gas del magma. Tuttavia, i dati evidenziano che questo potrebbe, invece, significare una diminuzione di permeabilità dovuta alla deposizione di minerali nelle fratture con conseguente aumento della pressione. Il sistema si troverebbe ad evolvere verso una condizione di maggiore instabilità che potrebbe preludere una esplosione idrotermale o una eruzione vulcanica”.
La formazione delle vene e la conseguente riduzione di permeabilità crostale, quindi, sarebbero così controllati dalla composizione chimica delle soluzioni acquose che depositano i minerali e dalla tettonica che controlla l’orientazione e il grado di interazione tra le vene. “Da qui il risultato che la dinamica di queste aree non risente solo dei processi vulcanici ma anche dagli sforzi prodotti dai processi geodinamici a più grande scala”, conclude Guido Ventura.